Il magico potere del riordino – Marie Kondo – Recensione

Non sapevo che questo libro fosse diventato un caso editoriale.
Pensavo, onestamente e senza vanità alcuna, che fosse uno di quei libri sfigatelli che sembro trovare e apprezzare solo io (non perché io sia uno speciale fiorellino, più perché ho gusti a volte curiosi).
Comunque, visto che volevo parlarvene in ogni caso e visto che sembra piacere molto, eccomi a darvene la mia opinione.

M’è piaciuto.

mariekondo

E potremmo chiuderla qui, ma essendo una sorta di manuale, forse è meglio entrare in dettaglio.

L’ho preso per caso, al supermercato, principalmente perché di un’autrice giapponese. C’è qualcosa nell’ordine, nella calma, nello *zen* del Giappone che mi affascina da sempre.
Non è poi un mistero che io abbia già parlato di downshifting e di tentativi di riordino di casa eccetera.
È servito a qualcosa?
No, la mia scrivania naviga tuttora in un mare di caos.
Ho già applicato il metodo di Marie Kondo?
No, perché sono irrimediabilmente pigra e procrastinatrice.

E allora cosa m’è piaciuto del libro?
Due cose, su tutte: lo stile con cui è scritto in primis.

Non so se avete mai letto libri di autori giapponesi, io ogni volta mi ritrovo a sentirci la stessa calma, ordine e grazia zen. Pensate a un anime o un manga, uno di quelli belli, dove magari ci sono cinque minuti di scene e inquadrature di fiori e riflessi della luce sull’acqua, o di strade vuote e silenziose. Per noi occidentali non hanno molto senso, ai fini della storia. Ma credo che sia questo il punto: noi siamo fissati con la fretta di portare avanti le cose, far progredire la storia, lì invece mi sembra ci sia un innato piacere nel fermarsi a osservare.

Prosa a parte, la seconda cosa che m’è piaciuta è l’approccio dell’autrice al riordino.
Che va oltre al downshifting che dice semplicemente “Disfati di tutto quello che non ti serve e che non hai usato negli ultimi dodici mesi”, o alle “soluzioni organizzative” che prescrivono un posto per ogni cosa, perfettamente incastrato e incasellato negli armadi o negli scaffali. Che diventano così bellissimi da vedere, ma impossibili da usare.

Qual è dunque il suo approccio? *spoiler alert!*
“Disfati di tutto quello che non ti emoziona”.

Bam! Geniale!
Perché? Perché io il copricostume di quando avevo due anni, con su Betty Boops tutta colorata, che ora forse non mi entra nemmeno più come canottiera, ecco io quello non lo voglio buttare, non so perché, non mi ricordo nemmeno di averlo messo da bambina, ero troppo piccola. Ma non ce la posso fare, lo vedo e mi strappa un sorriso ogni volta.
Perché quel vestito, non esattamente bellissimo, ma che mi fa sentire wonderwoman anche se lo metto mezz’ora in casa prima di decidere di cambiarmi per uscire, non lo voglio buttare.
Preferisco disfarmi di altre tre magliette, un vestito e due gonne che ho lì, non uso e non mi dicono niente, piuttosto che questi altri due elementi che mi emozionano.
Non so, per me questo suo metodo ha avuto perfettamente senso da subito.

Mi affascina anche l’animismo di fondo che traspare, non credo ringrazierò mai la giacca per avermi tenuta calda, ma mi capita di dire “ciao casetta!” quando torno stanca o dopo un viaggio. Il rispetto per gli oggetti può avere senso: ce li siamo comprati e quindi meritati lavorando, è un modo come un altro di essere grati di ciò che si ha e anche di ciò che si fa e quindi, forse, di essere un po’ più soddisfatti quotidianamente della propria vita.

Ecco, forse è proprio questo il punto, il downshifting è sicuramente intelligente, ma forse per me rimane un po’ troppo freddo, come se demonizzasse tutti gli oggetti a prescindere. Eppure il valore di un paio di calze belle calde, in certi giorni d’inverno, è inestimabile, ed esserne consapevoli non dico che ti risolva la vita, ma sicuro ti risolleva la giornata, se poi te le ha fatte a maglia la nonna e ogni volta che le metti ti senti bene… boh, c’è ancora bisogno di stare a discuterne?

Quindi, andate a prendere questo libro, fatevelo prestare, cercatelo in biblioteca, ci sono anche consigli pratici, ovviamente. Insomma, ne vale la pena.

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